venerdì 23 settembre 2011

E se provassimo a darci un taglio?

Un'estate di manovre finanziarie e non sembra ancora finita. Interventi pesanti, resi necessari da una crisi che certamente deve essere superata senza sfasciare del tutto l'Italia. Su questi temi, molti sono intervenuti, anche con grande competenza. Noi vorremmo sollecitare uno sguardo diverso. Che cosa possiamo imparare anche da questo passaggio? Quali riflessioni e quali comportamenti possiamo utilmente sviluppare? All'origine delle decisioni politiche viene assunto come assioma che è necessario tagliare la spesa pubblica, che dobbiamo ridurre le spese per i servizi sociali ed educativi, che dobbiamo dare più spazio al privato, che tutto deve essere ricondotto entro parametri di compatibilità. Ma dove sta scritto che queste regole siano certe e indiscutibili? Chi ha stabilito che così deve essere in assoluto? Chi decide dove si colloca la compatibilità? All'origine delle decisioni o solo a valle quando si tratta di spartirsi le briciole?

Forse è arrivato il momento di porsi seriamente la questione se sia veramente utile continuare a consumare energie per salvare le rovine dell'esistente e per cercare di difendere “quel che resta” o se non è il momento di ripartire da capo, di porci il problema di cosa non va all'origine per poi affrontare i problemi a valle in un'ottica rinnovata che apra nuove prospettive e non ci riconduca ogni volta al punto in cui ci ritroviamo inesorabilmente da decenni: a tagliare, a penalizzare, a imbarbarire le convivenze.



Pensiamo ai servizi educativi per l'infanzia: sono nati sfruttando un momento particolarmente felice della vita politica e sociale italiana, ma poi nessuno li ha più riconosciuti come figli propri. L'argomento dominante è diventato il costo, l'impossibilità di sostenere l'impegno di risorse economiche e di personale qualificato per garantire il diritto alla frequenza a servizi di qualità. Nel frattempo anche gli economisti più ostici che avevano spesso dileggiato l'intervento educativo con i piccoli, hanno dovuto arrendersi ai dati di realtà e riconoscere che l'investimento sull'infanzia non solo è utile a livello di ben-essere per i bambini che ne sono partecipi, ma è uno degli investimenti sociali a più alto ritorno economico. Sono diventati di uso comune i concetti di dividendo sociale che un bambino, che ha fruito di un buon nido e di una buona scuola dell'infanzia, può offrire alla comunità di cui fa parte. La scuola economica che fa capo al premio Nobel Heckman suggerisce che i Governi raccolgano prestiti per sostenere questo grande investimento. Si passa dalla concezione del “mutuo” pluriennale per le grandi opere pubbliche (centrate sul cemento, il “solito” dispensatore di miracoli) al “mutuo” per il ben-essere sociale (centrato sull'equilibrio emotivo e sullo sviluppo dell'intelligenza). Come conciliamo questa certezza scientificamente raggiunta con le prospettive che ci vengono presentate anche da quelle forze e da quelle voci che pure si dichiarano innovative e aperte allo sviluppo? Possiamo concordare con i suggerimenti di Trichet e Draghi che per rilanciare l'economia propongono qualche decina di miliardi sullo sviluppo delle autostrade? Possiamo limitarci a rivendicare il pannicello del Piano Nidi come grande conquista sociale? O non dobbiamo forse far sentire forte e alta l'affermazione che lo sviluppo e la ripresa passano attraverso l'investimento sui servizi sociali, sulla prevenzione precoce, sull'educazione, sulla compensazione? I lavoratori dei servizi educativi, gli educatori, gli insegnanti sono lavoratori al pari di gruisti, camionisti, manovali. Producono reddito ormai certificato con più alta ricaduta sociale, consumano e contribuiscono ai consumi come ogni altra categoria. E allora perché stiamo alla finestra e lasciamo che le pressioni e i giochi siano condotti da lobbies legate a una visionestanca, vecchia, mortificante che ci riconduce solo al passato, che non apre prospettive, che non si pone una visione di futuro includente per tutti?

Si obietta che non ci sono le risorse, che la spesa pubblica va tagliata. Ma in nome di che cosa? Il capitalismo, l'iniziativa privata non è che negli ultimi tempi abbia dato il meglio di sé. Se guardiamo all'iniziativa privata, abbiamo in Italia fior di esempi di disastri industriali, di incompetenza truffaldina. Se consideriamo la finanza mondiale, non siamo ancora salvi dalle brillanti iniziative dai maghi di Wall Street. E dovremmo affidare il nostro futuro a questo mondo? È sotto gli occhi di tutti che non basta la caratteristica di “privato” perché le cose funzionino, è dimostrato da rigorosi rapporti che le esternalizzazioni non producono risparmi se non a scapito della qualità del servizio. Ma noi siamo prigionieri di dogmi non si sa da dove originati: “solo il privato è bello”. Proviamo a rimetterci a pensare e a valutare con distacco quale sia la strada veramente produttiva e significativa per la crescita sociale. Quanto pesa il precariato e lo sfruttamento indotto dal massacro del sistema-lavoro alla nostra società? Quante energie e quante risorse dobbiamo investire (o disperdere) per azioni di contrasto ai guai causati da una visione abnorme dello sviluppo? Siamo vittime dei meccanismi perversi che discendono da assiomi non si sa da dove nati, da chi sostenuti, ma che ormai non ci sfiora la minima idea di mettere in discussione. Se incominciassimo a pensare che “pubblico è bello”, “pubblico può funzionare”, “pubblico sono io”? Certo dobbiamo incominciare a mettere in discussione molto dell'esistente. Ma in questo caso vogliamo cambiare qualcosa perché tutto cambi. Sarà scomodo per alcuni, ma perché mai oggi dovremmo continuare a difendere calendari e orari rigidi legati a modelli sociali che non esistono più? Se uno dei problemi vitali di tutte le componenti sociali è la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, diventa ineludibile e urgente rimettere in discussione l'organizzazione del lavoro anche del pubblico impiego. Non per penalizzare, ma per trovare quell'accordo tra tutte le categorie dei lavoratori che sostenga uno sviluppo armonico della vita individuale e sociale, che permetta il più ampio ben-essere. Una maturazione concordata e dolce permette un passaggio verso nuovi modelli compatibile con le diverse esigenze. Veramente si sente la necessità urgente di tornare a ragionare in termini di bene comune, di crescita collettiva. Negli anni Sessanta è stato l'intervento di supplenza politica soprattutto del Sindacato che ha dato avvio alla stagione dei servizi per l'infanzia: è stato un grande momento in cui la visione della collettività e dello sviluppo futuro, hanno avuto la meglio su logiche di categoria e di difesa del particolare. Cosa possiamo riproporci per gli anni Dieci?

Ma può un movimento dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, governare e dirigere un processo di transizione di questa portata? Certamente no. Nessuno prospetta una cosa simile. Ma le forze, le idee e la determinazione per intraprendere un percorso del genere non possono nascere in nessuna altra sede e in nessun altro modo. D'altronde non si tratta di processi isolati: le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono già milioni in ogni parte della Terra. Sta a noi scegliere come essere protagonisti di questo progetto.

3 commenti:

  1. "Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
    La crisi può essere una grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
    La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura.
    E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
    Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato.
    Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il proprio talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
    La vera crisi è l'incompetenza.
    Il più grande inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita ai propri problemi.
    Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
    Senza crisi non c'è merito.
    E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze.
    Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
    Invece, lavoriamo duro.
    Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla."
    Albert Einstein

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  2. Asili Nido la crisi occasione di crescita

    Nel momento in cui la crisi economica mondiale sta mettendo in discussione gli assetti raggiunti e le politiche fin qui attuate, non possiamo limitarci a discutere di tagli o a cercare di mettere piccole pezze a un sistema che sta andando in frantumi.
    Dobbiamo cogliere l’occasione per una riflessione più ampia che riparta dai fondamenti e ridefinisca le priorità.
    Oltretutto la crisi è ben lontana da avviarsi a conclusione e non ha ancora dispiegato gli effetti peggiori. L’esempio della Grecia deve servirci da riferimento e da monito: prima che sia un podestà straniero (FMI, Banca Centrale, ecc.) - come suggeriva la trasmissione di Gad Lerner il 26 settembre - a imporci le decisioni e i tagli, appare opportuno che affrontiamo da protagonisti attivi la situazione e articoliamo autonomamente le direttrici di una riforma.
    Le dimensioni della crisi porterebbero, se dovessimo finire nelle condizioni della Grecia a tagli inimmaginabili in ogni settore (solo per quanto riguarda i pubblici dipendenti, tenendo le proporzioni di quanto richiesto alla Grecia, sarebbero imposti 1.680.000 licenziamenti). E possiamo già immaginare quali sarebbero i settori colpiti per primi: come sempre educazione e servizi sociali.
    Ecco perché è ineludibile e urgente una riflessione e una proposta anche dirompente, ma che in realtà deve servirci ad impostare le politiche dei prossimi decenni su nuovi parametri. Di certo sappiamo solo che non torneremo mai a vivere come prima di questa crisi.
    Noi desideriamo avere un futuro: per noi, per i nostri figli, per la nostra società. Illustri economisti a livello mondiale hanno dimostrato che il futuro delle persone e della società passa attraverso servizi educativi di alta qualità per tutti. Se questo é vero, come é vero, a questo obiettivo non possiamo rinunciare. Deve anzi diventare il primo obiettivo della politica, dell’economia, della cultura. E se le risorse sono scarse, dobbiamo impegnarci per indirizzarle tutte prioritariamente a questo scopo.

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  3. Certamente l'articolo è provocatorio, ma le provocazioni mi sembrano un modo di porsi all’altezza dei tempi. Io ritengo da tempo che non basti affermare un “principio”, ma che sia necessario definire parole concrete di impegno per l’attuazione dello stesso. Peraltro, lavorando in un Comune, dove sempre di più i temi dell ‘organizzazione e della gestione diventano comunque imposti da altri (come si farà nei prossimi anni visto il blocco delle assunzioni e il limite alla spesa per il tempo determinato ad andare avanti nella rivendicazione della gestione diretta dei servizi?), credo che i temi posti alla nostra attenzione siano fondamentali. Nei prossimi mesi chiederemo sempre più “sacrifici” ai lavoratori, anche se in parte questo vuol dire –lo dico con franchezza e convinzione ovviamente personale- uscire da sacche di rigidismo protette dagli stessi sindacati, che oggi non reggono più: qualcuno si è mai chiesto come sul territorio torinese si fa a mediare tra 26 ore settimanali degli insegnanti di scuola dell’infanzia e i lavoratori della Fiat, che la vedono sempre più distante e fuori dai confini nazionali? Ovviamente si può, ma bisogna seriamente pensarci su. Abbiamo forse bisogno di legare la necessità di rivedere le forme organizzative con la possibilità di dare ai lavoratori interessati la “fiducia” in uno scenario nuovo e compatibile. Per questo, mi pare che una presa di posizine esplicita sia necessario: e schierarsi oggi non mi spaventa.

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