lunedì 26 settembre 2011

Il nido ai tempi della crisi

Elena Luciano, Università degli Studi di Parma

I servizi per l'infanzia italiani stanno vivendo un periodo di forte difficoltà, come se fossero attraversati da una bufera violenta che scuote, spinge, sbatte, tormenta e, attraverso un vento forte e polveroso, mette a dura prova la loro stabilità, resistenza e capacità di rinnovamento, nonché la progettualità e la professionalità di coloro che a vario titolo vi operano.

Il nido è in crisi e non certo perché ideologicamente, provocatoriamente e senza alcuna problematizzazione di ordine pedagogico viene talvolta attaccato in funzione di un ritorno, da parte delle donne, a una vita fatta di latte, figli e premure domestiche. Risale a quaranta anni fa il primo strumento legislativo italiano – la legge n. 1044 del 6 dicembre 1971 – volto a trasferire la cura e la tutela del bambino dalla famiglia alla comunità, attraverso una programmazione dei servizi sociali con un diretto appoggio delle Regioni e degli enti locali: nel quadro di un sistema di sicurezza sociale, il nido nasceva come risposta ai bisogni di supporto espressi dalle famiglie con genitori impegnati professionalmente. Tale risposta era allora intrisa di dubbi sulla validità di un'educazione collettiva precoce e sugli effetti negativi dell'allontanamento dei bambini dalle loro principali figure di riferimento.


L'impegno che in modo continuativo da lì è seguito – nelle politiche per l'infanzia, nelle pratiche cresciute all'interno dei servizi educativi 0-6 sul territorio nazionale, nella ricerca teorica e sul campo in merito a temi e problemi di pedagogia dell'infanzia e di molte altre discipline ad essa correlate – ha fatto la differenza, diffondendo una cultura dell'infanzia tutta italiana e rispondendo al diritto di tutti i bambini a soluzioni educative e di cura di qualità. L'attenzioni ai tempi, ai bisogni e alle potenzialità dei bambini, la cura delle relazioni tra essi, tra bambini e adulti, nonché tra adulti ha indotto gradatamente a leggere l'esperienza del nido come occasione evolutiva, risorsa relazionale e spazio di crescita e di benessere – per i bambini e per gli adulti – al di fuori del contesto familiare. Oggi il nido è riconosciuto come un luogo educativo – e non più di custodia né di mera assistenza – pensato e progettato, anche grazie all'alleanza con le famiglie, per il benessere e la crescita del bambino, in quanto capace di sostenerne lo sviluppo e la formazione nei primi anni di vita, nonché di svilupparne a pieno le potenzialità.
Non si può tuttavia dire che si tratta di un processo nato per caso né in grado di procedere e di alimentarsi da solo. Oggi non possiamo certo attenderci che il sistema dei servizi 0-6 italiani possa rimanere tale senza che intervenga una forza esterna a modificare il suo stato, a partire per esempio da un quadro di riforma organica sui servizi educativi per la prima infanzia.
Peraltro, oggi accede al sistema integrato dei servizi educativi per la prima infanzia (nidi e altri servizi educativi integrativi) mediamente solo il 20% dei bambini di età 0-3, lasciando per lo più vano l'obiettivo di Barcellona di avere una copertura del servizio per almeno il 33% dei bambini di tale fascia di età.
Di fronte alla consolidata esperienza italiana, che comprende svariate realtà di eccellenza riconosciute a livello internazionale, il nido e gli altri servizi educativi si trovano ad attraversare un momento di forte difficoltà dovuta alla crisi economica che determina potentemente complicazioni e turbamenti nella loro identità culturale, pedagogica e progettuale: in una simile situazione di incertezza, l'impegno politico nazionale relativo ai servizi educativi non pare certo orientato alla loro valorizzazione nè al loro sostegno, ancor meno al loro sviluppo. Le politiche sociali ed educative in Italia sembrano per la verità aver favorito un progressivo processo di privatizzazione dell'infanzia, attribuendo il benessere e la cura dei più piccoli alle reti familiari, e quindi – almeno in parte – alla fortuna. Questo avviene nonostante sia studiosi di differenti ambiti disciplinari, tra cui la pedagogia, la psicologia, l'economia e la sociologia, sia la Commissione Europea si siano da tempo espressi a favore di un accesso universale ai servizi ECEC ( Early Childhood Education and Care - Educazione e cura per la prima infanzia) inclusivi e di alta qualità, in quanto capace di ripercuotersi in modo duraturo ed efficace nel tempo sullo sviluppo dei bambini e sul miglioramento della loro qualità di vita.
Se fin qui le esperienze educative per i bambini e le famiglie si sono accresciute – in qualità come in quantità, se pur in modo disomogeneo sul territorio nazionale – oggi le diffuse e crescenti difficoltà economico-finanziarie locali inducono spesso a scelte drastiche, degenerative, spesso distruttive.
In un momento di scarsa lungimiranza circa le politiche per l'infanzia e l'educazione, la miopia dei tagli indiscriminati rischia – a causa dell'impoverimento delle famiglie così come delle Amministrazioni e in generale di molti enti gestori – di ridurre la domanda di servizi e di renderne l'offerta più fragile, aggravando le condizioni di lavoro degli operatori, rendendo superflui gli investimenti sulla loro professionalità, sfavorendo infine la qualità del lavoro educativo. In una situazione in cui l'impatto della crisi economica sui servizi è tanto rilevante, l'effetto negativo rischia peraltro di avere particolari ripercussioni proprio sulle famiglie più fragili e sui loro bambini, inceppando quindi quel virtuoso sistema che connette lo sviluppo dei servizi per l'infanzia, il futuro della qualità di vita dei bambini che li frequentano e il contrasto precoce delle disuguaglianze sociali.
Nella realtà italiana accade oggi che interi servizi per l'infanzia vengano improvvisamente chiusi o ridotti o trasferiti senza progettualità alcuna a nuovi soggetti gestori, rompendo la sinergia spesso faticosamente raggiunta dai gruppi di lavoro e limitando o sospendendo attività di coordinamento pedagogico e di supervisione scientifica; accade che gruppi educativi si vedano improvvisamente negate opportunità di formazione ritenute superflue, risorse per l'acquisto di materiali educativi, bibliografici e documentativi, autorizzazioni per la partecipazione a convegni, seminari, viaggi-studio e a tutte quelle occasioni di confronto e scambio tanto preziose per lo sviluppo della professionalità degli operatori; accade che i rapporti numerici tra bambini e adulti peggiorino e che le ore di compresenza degli operatori si riducano o addirittura svaniscano, a discapito della qualità dell'offerta educativa, delle proposte educative individualizzate e di piccolo gruppo, della collaborazione tra adulti. In Italia accade anche che si ricorra all'opportunità degli anticipi e delle sezioni primavera non tanto in funzione di scelte pedagogiche e progettuali a favore dello sviluppo e della formazione dei cittadini più piccoli, quanto piuttosto di esigenze di risparmio di spesa. Oggi, nei servizi italiani, accade – e sempre più frequentemente – che a metà anno un genitore perda il lavoro e si trovi costretto a tenere il proprio bambino a casa o che chieda un inserimento fugace del proprio bambino di soli tre, quattro mesi d'età pur di non rimetterci la propria occupazione. Ancora, oggi accade che i bambini fruiscano agevolmente di attività e servizi solo se figli di famiglie fondate sul matrimonio, le uniche che sembrano essere riconosciute nel III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, che i bambini vengano discriminati perché figli di famiglie non considerate legittime e che quelli con bisogni educativi speciali non abbiano possibilità di fruire delle risorse e degli interventi educativi individualizzati e specifici di cui avrebbero diritto.
Tutto questo accade oggi nei servizi educativi italiani.
Si può certo sperare che le scelte politiche per l'infanzia si facciano più audaci, coraggiose e sensibili nei confronti del benessere di tutti i bambini – indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali e culturali delle loro famiglie, così come delle loro scelte educative, religiose, politiche e sessuali – e anche che l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, finalmente istituita anche in Italia soltanto pochi giorni fa in via definitiva, possa porsi nel tempo come risorsa realmente impegnata a tutela dei più piccoli e non come espressione solenne di intenti fatui e inconsistenti.
Pare necessario nel frattempo che i servizi educativi per l'infanzia e tutti coloro che operano in tale ambito si impegnino a rinnovare il proprio linguaggio, a dialogare con interlocutori digiuni di saperi sull'infanzia così da farsi comprendere e anche ispirare da essi; ma è anche fondamentale che la crisi in cui i servizi educativi per l'infanzia italiani si trovano possa divenire occasione volta a promuovere conoscenza e dialogo tra educatori, coordinatori, ricercatori, pedagogisti, dirigenti, amministratori e politici.
Certo può essere l'occasione per aprire la professionalità educativa all'immaginazione, accettando di scoprire l'inusuale, di tollerare l'incerto, di sperimentare l'errore e di accogliere anche ciò che appare impossibile o incomprensibile. Anche in tempi di crisi, il legame e il confronto tra operatori e servizi del territorio, tra educatori e famiglie, tra famiglie, tra educatori e bambini, tra servizi e università, può costituire un impegno a costruire reti, a condividere fatiche ma anche soluzioni possibili, rinvigorendo il senso educativo più profondo delle scelte e delle proposte offerte ai bambini e alle loro famiglie dentro a servizi che auspicabilmente possano sentirsi parte di un sistema – meno provinciale e più europeo – di ECEC.
È in tal senso preziosa l'occasione – qui proposta ancora una volta da Bambini in Europa – di conoscenza di ciò che è diverso e lontano dalla propria quotidianità, di confronto con ciò che accade nelle famiglie, nei servizi e nelle politiche in Europa.

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