giovedì 30 agosto 2012

Pubblico e privato

Un discorso da fare, molto rapidamente, perché è stato un cavallo di battaglia della sinistra e delle organizzazioni dei suoi insegnanti, è quello sulla difesa della scuola pubblica, che ha automaticamente comportato, almeno fino a ieri, una generale ripulsa delle stesse organizzazioni nei confronti della scuola privata

Lo ripeto: la scuola pubblica è nata su due spinte concomitanti, la necessità da parte del capitale di avere, per lo sviluppo delle sue industrie, personale non analfabeta, e la pressione delle lotte socialiste affinché i figli del popolo potessero godere di un'istruzione pubblica, presa in carico dallo Stato. C'è un bellissimo saggio storico di Lamberto Borghi che ricostruisce da un lato l'acceso dibattito tra chi diceva che il popolo doveva avere le proprie scuole (il modello è quello inglese), gestite autonomamente, perché lo Stato non può che promuovere un insegnamento adeguato ai bisogni della borghesia che ne è al comando e secondo la sua impostazione ideologica, e dall'altro criticalo statalismo delle forze dominanti all'interno della sinistra, dalla Seconda Internazionale in avanti (Educazione e autorità nell'Italia moderna, La Nuova Italia).



La scuola pubblica è stata una scelta non obbligata, coerente alle idee dominanti di una sinistra che, con il predominio ideologico, dopo la guerra, del Partito comunista ha vituperato ogni forma di scuola privata (salvo i propri convitti, subito dopo la guerra). Affidare allo Stato l'educazione dei propri figli si è rivelato col tempo, oggi in particolare, una scelta piena di pericoli, nella rinuncia del popolo a una sua scuola, con propri metodi di insegnamento, sulla base di valori diversi da quelli borghesi. La difesa della scuola pubblica è stata tuttavia necessaria perché quando si parlava di scuola privata non si parlava mai o quasi mai di esperienze pedagogiche in contrasto con quelle imposte dallo Stato, ma di esperienze pedagogiche decisamente connotate in senso classista o confessionale: le scuole private volute dai ricchi per i propri figli, le scuole private volute dalla Chiesa per diffondere e imporre la propria visione del mondo (peraltro senza affatto rinunciare a influenzare o addirittura a controllare tramite il partito cattolico lungamente al governo, i valori e i modelli proposti dalla scuola pubblica).
È ovvio che oggi la scuola pubblica è un castello che il potere è ben felice di smantellare, e che ha intrapreso anzi a smantellare, si direbbe voluttuosamente, con il beneplacito e la collaborazione della sinistra e dei suoi ministri e pedagogisti. Cosa intende sostituirvi non è chiaro, anche perché il capitale è sempre più anarchico e distrugge e ricrea le sue forme all'infinito. L'aggressione alla scuola pubblica è nei suoi interessi, ma non è oggi negli interessi dei cittadini comuni. È opportuno che i pedagogisti aperti al futuro si facciano partecipi della subalternità dei cittadini comuni, dei senza-potere, e ripensino a questa immensa questione con la testa sgombra dalle convinzioni e dai pregiudizi che hanno guidato una sinistra che ha creduto di controllare il potere facendosi sua parte, di controllare lo Stato facendosi Stato.

Se oggi nascessero scuole private e "sperimentali" che rispettassero determinate norme basilari uguali per tutti, ma con un proprio carattere e una propria autonomia nell'impostazione dell'insegnamento, se potessero esserci scuole di libertà, e cioè antiautoritarie e con una visione del mondo a cui rispondere diversa da quella dei potenti, questo sarebbe un bene per tutti. Esperienze passate come quelle di Scuola-Città a Firenze e del Ceis a Rimini e altre ancora, o come quelle del Movimento di Cooperazione Educativa i cui maestri precisavano più alte finalità e sperimentavano metodi nuovi anche fuori o ai margini dell'istituzione scolastica, hanno dimostrato la possibilità di un dialogo possibile e produttivo tra il dentro e il fuori, tra pubblico e privato. Ma oggi i ricchi e i preti possono fare quello che vogliono, mentre i funzionari e politici dello Stato repubblicano impongono e dispongo non in nome degli interessi del popolo, ma di quelli che erano detti un tempo borghesi.
Le classi subalterne comprendono ormai anche un ceto medio massiccio e facilmente manipolato, e le minoranze eticamente determinate che sono al suo interno (e alle quali gli educatori dovrebbero rispondere, delle quali dovrebbero far parte) si dovrebbero distinguere portando divisione e chiarezza, dialogando da posizioni forti, e anche, se necessario, inventando nuove forme della trasmissione pedagogica.

È già cominciato il tempo in cui queste minoranze devono decidere di che tipo di educazione hanno bisogno i propri figli, certamente diversa da quella dei ricchi e da quella della Chiesa, ma anche da quella di una scuola pubblica che non sa più quali sono i suoi fini e annaspa senza direzioni chiare, senza ragionare su ciò che i nuovi cittadini dovrebbero sapere, e su ciò che dovrebbero poter diventare. Se la scuola pubblica vuole avere un futuro, deve comprendere cosa succede nella società che la esprime e aprirsi, cambiare. Siccome è assai probabile che, fuori, non molto di buono arriverà, è allora utile e anzi indispensabile che le minoranze "persuase" riprendano a fare da sé, dialogando anzitutto tra loro e sottoponendo a dura critica le impostazioni ideologiche, evidenti o nascoste, che presiedono alle scelte sulla scuola dei politici e dei loro "esperti", cercando nuove strade, una nuova pedagogia. Perché mai non dovrebbe esserci un privato sano in risposta a un pubblico malsano?
 
Goffredo Fofi, Salvare gli innocenti. Una pedagogia per i tempi di crisi , edizioni la meridiana, Molfetta (Ba), 2012.

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