martedì 9 ottobre 2012

Il mio viaggio nella formazione dei futuri insegnanti di scuola dell’infanzia: tra inesperienza e competenza.

Antonella Panchetti, insegnante di scuola dell’infanzia e tutor supervisore presso l’Università degli Studi di Firenze, Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria

Istruire l’infanzia è scolpire nella pietra.
(Proverbio arabo)

Fino alla legge 341/90 bastava aver fatto tre anni di scuola magistrale (istituita dalla Riforma Gentile del 1923) quasi interamente gestita da istituzioni private religiose, nel cui ambito le esigenze di professionalizzazione erano disattese perché la scuola dell’infanzia per molti anni è stata considerata un semplice luogo di accoglienza, l’asilo, affidata prevalentemente a istituzioni private. Come diceva un parlamentare: «le insegnanti non conoscono orari, non hanno stipendi, non hanno trattamento di quiescenza… aspettano il loro compenso nell’aldilà». [1]



Fino al 1967 con la legge 903 sulla parità del lavoro le insegnanti, le assistenti, il personale ausiliario, le direttrici, le ispettrici erano solo di sesso femminile. Il profilo dell’insegnante era prevalentemente basato sulle caratteristiche personali. [2].

La crescita istituzionale e culturale della scuola dell’infanzia pubblica degli anni ’70-’80 ha consentito di porre il problema del profilo professionale di scuola dell’infanzia già dalla Legge di Delega del 1973. Infatti è dalla Legge delega n. 477 del 1973 che si parla di formazione universitaria dei docenti della scuola di base ma fino alla fine degli anni ’90 la formazione è stata caratterizzata dall’assenza di indicazioni circa le specifiche competenze culturali e professionali che gli insegnanti devono possedere. I titoli di accesso per insegnare alla Scuola Elementare (e/o alla Scuola Materna) erano rilasciati dall’Istituto Magistrale, di durata quadriennale, e per insegnare alla Scuola Materna dalla Scuola Magistrale, di durata triennale. La formazione era di tipo eterogeneo e la professione era legata soprattutto all’esercizio della pratica e all’esperienza diretta.

Con la Legge 341/90 la professione ha subito un processo di emancipazione professionale quasi a confermare l’identità di una scuola e il profilo di ‘insegnante regista’ delineato nei Nuovi Orientamenti del 1991. Viene riconosciuto un percorso unitario di formazione per i futuri insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia. La separazione dei percorsi infatti si ha solamente nel secondo biennio, professionalizzante. Per la prima volta che vengono riconosciute competenze specifiche alle insegnanti di scuola primaria e di scuola dell’infanzia richiedendo personale appartenente a quello specifico ordine di scuola. È il riconoscimento di una diversa identità e di specifiche competenze che caratterizzano uno specifico segmento formativo.
Sono un’insegnante di scuola dell’infanzia e da sei anni lavoro anche come ‘tutor supervisore’ presso il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università degli Studi di Firenze. I supervisori che come me hanno superato la selezione sono impegnati e motivati. La scelta di impegnarsi anche in un ambiente istituzionale ‘diverso’, come quello universitario, con tutto quello che comporta (orario e spese aggiuntive, trasporti,…), spesso nasce dalla motivazione di voler ormare le nuove generazioni per una scuola migliore. È la prima volta che sono riconosciute competenze specifiche alle insegnanti appartenenti alla scuola primaria e alla scuola dell’infanzia, che sono legittimati entrambi i percorsi di studio, organizzati in parallelo, ed è richiesto, all’interno dell’iter di formazione per le attività di tirocinio indiretto, personale specifico dell’ordine di scuola.
Per la prima volta ‘la pratica’ e le buone prassi affiancano ‘la cultura alta’ e  le ore di frequenza che riguardano il tirocinio sono obbligatorie rispetto a quelle facoltative dei corsi. D’altra parte «lo strumentario teorico è una cosa e il mondo della didattica, così come empiricamente si è articolato nella prassi scolastica, un’altra».[3]
Secondo me più del rigore metodologico, che nella scuola è evidentemente carente, occorre cultura, sapere disciplinare, avere curiosità, interessi, passioni anche a livello personale in quanto nella scuola l’insegnante come il bambino porta innanzitutto se stesso.Quindi il ‘sapere disciplinare’ non è fine a se stesso ma è importante ‘come’ si unisce alla cultura dei bambini. «L’esperienza come il sapere non sono assolutamente assimilabili a nastri magnetici o a floppy-disk e non possono quindi essere registrati per essere successivamente riprodotti su un qualche supporto che permetta di restituire il messaggio così com’era alla fonte. Sia l’esperienza sia il sapere non sono oggetti ma azioni e quindi l’educazione non può tramandare nessuna esperienza, nessun sapere agiti altrove se non tramite la costruzione dell’esperienza educativa che è esperienza di azione comunicativa tra chi insegna e chi impara attorno a un sapere prodotto qui e ora».[4]
Alla base dell’attività che svolgo ci sono l’ascolto, il confronto, la condivisione di un viaggio che percorro con le nuove generazioni che hanno scelto di voler lavorare nelle scuole dell’infanzia. Mi sono stati affidati gli studenti ‘regolari’ e ‘i lavoratori’. Questi ultimi appartengono al mondo produttivo e spesso già laureati; a volte sono insegnanti in servizio in cerca di nuovi stimoli e nuove motivazioni. L’età oscilla dai venticinque ai cinquant'anni ma la maggior parte di loro ha dai trentadue e i quarant'anni. Si tratta di donne al terzo e quarto anno di corso: quasi tutte precarie o con contratti a termine o a progetto. Gli occhi brillano a pochissime. Per creare interesse, per accenderlo e far brillare gli animi occorre sapersi soffermare e impostare le attività in forma laboratoriale sulla pratica didattica e far aprire il confronto in aula. Occorre aiutare a ritrovare la calma, il tempo che occorre e il contatto consapevole con l’esperienza presente. Insegnare ad esplorare ‘il senso delle cose’ è una necessità sia di questo universo di significati che è la nostra cultura sia un bisogno formativo degli studenti: ecco perché ritengo fondamentale ‘personalizzare’ parte dei percorsi.  Va potenziata la possibilità di scegliere con la consapevolezza di cosa stiamo scegliendo. Per riuscirci occorre che l’esperienza sia l’oggetto intenzionale del tirocinio. Bisogna aiutare gli studenti ad allontanarsi dalla concezione dell’esperienza educativa all’interno della scuola intesa come ‘flusso di vissuti positivi’, per aiutarli ad avvicinarsi all’idea più autentica anche se molto più complessa di educazione come ‘esperienza dell’esperienza’. Occorre chiedersi, per esempio, cosa significhi oggi parlare di esperienza educativa e cosa la contraddistingue dalle esperienze che comunemente si fanno; riflettere sulle routine a scuola, sul calendario, o sulla gestione del pranzo. Nella progettazione curricolare degli itinerari didattici occorre saper cogliere in modo critico e problematico la complessità della realtà educativa, con una particolare attenzione all’interazione comunicativa-relazionale.
L’utilizzo di e-group rappresenta la memoria e il contenitore del viaggio del gruppo. L’utilizzo di questo strumento porta via molto tempo ma permette di condividere delle informazioni all’interno del gruppo tramite sistemi e strumenti evoluti di condivisione del lavoro. Niente può comunque sostituire la relazione che si viene a creare con il lavoro in presenza e le relazioni che si stabiliscono grazie al confronto delle idee.
Il mondo cambia con tale rapidità che spesso mi chiedo se sono all’altezza di confrontarmi con queste giovani che convivono con la precarietà del lavoro e hanno necessità di essere educate in modo propositivo all’incertezza. Mentre in passato eravamo in grado di proporre un’ipotesi di futuro ora non lo siamo più per la rapidità dei processi di cambiamento.
Emerge dalle esperienze di tirocinio fatte dagli studenti nella scuola, nei racconti delle loro esperienze dirette e sintetizzate nelle relazioni, nei loro diari di bordo, nei percorsi didattici che riportano in forma cartacea all’Università, una grande involuzione nella scuola in generale e, in particolare in quella dell’infanzia, sia a livello didattico che educativo. Le insegnanti più motivate sono sconfortate anche perché si sta nuovamente parlando di scuola dell’infanzia come ‘appendice’ della primaria. Non possiamo non rilevare che il lavoro proposto all’interno della scuola dell’infanzia ha una grossa ‘componente di conservazione’, anche se, a differenza degli altri ordini di scuola, le esperienze proposte sono estremamente diversificate perché si riferiscono a una pluralità di modelli istituzionali e organizzativi promossi da diversi soggetti: lo Stato, il Comune, gli Ordini religiosi, le Associazioni.
Per un rinnovamento o, almeno un mantenimento delle ‘buone pratiche’ della scuola bisognerebbe rimotivare le persone e le scuole e attivare partecipazione ai corsi di formazione iniziale e permanente, alla progettazione, alla gestione, alla vita della scuola. Occorrerebbe intrecciare una partecipazione tra una pluralità dei soggetti: le scuole, l’Università, gli insegnanti, gli studenti, il governo centrale e quelli locali, i partiti, le associazioni di categoria, i sindacati. Non è facile far incontrare mondi diversi e condividere uno stesso progetto perché molto spesso gli obiettivi che pongono sono diversi. Basti vedere le differenze che intercorrono tra il ‘dichiarato’ e come è ‘agito’ e quanto l’organizzazione istituzionale rifletta in realtà la ‘cultura’ che sottende ciò che è dichiarato.
D’altra parte chi ha ‘militato’ per una scuola diversa ed è sceso in piazza ‘perché ci credeva’ora è in pensione o a fine carriera. L’idea dell’insegnante come ‘agente di cambiamento’ è un sogno delle insegnanti del passato; c’è la richiesta esplicita invece di capire cosa vogliono gli altri (i professori, la facoltà oppure la famiglia, il dirigente, i genitori...) per adattarsi. L’immagine dell’insegnante come elemento di cambiamento con alla base il «coraggio dell’utopia»[5] vacilla e anche servizi attivi da decenni[6] si trovano a scontrarsi con una realtà che non gli riconosce più dignità di esistere.
Qualcuna dice che ha paura a parlare, a esprimersi; riportano l’immagine di una società dove esistono molto poco la condivisione delle idee e la partecipazione attiva. Sorprende il fatto che si abbia la capacità di innamorarsi di qualcosa, di qualcuno, senza secondi fini, che ci si possa impegnare per amore verso il proprio lavoro, verso i bambini. E con qualcuna nascono dei rapporti di fiducia tali da costituire un riferimento a cui poter chiedere aiuto.
Se quello del ‘successo formativo’ non rappresenta soltanto uno slogan introdotto dall’autonomia, «l’analisi dei bisogni deve costituire un momento di indagine e di riflessione in grado di orientare e giustificare le scelte didattiche. In questo senso la progettazione ha un ruolo strategico e diventa strumento per favorire l’apprendimento attraverso un’articolazione ad hoc dell’insegnamento, evitando il rischio di farla retrocedere a un insieme di operazioni burocratiche svuotate di significato».[7]La cura della persona, nella sua irriducibilità e nella sua irripetibilità, assume una valenza formativa superiore rispetto al curricolo esplicito. Ciò che differenzia una scuola rispetto ad un’altra con alla base una stessa progettazione (o un insegnante da un altro) è proprio la ‘pratica’ della cura e rivolta al bambino e rivolta all’ambiente.
Quando si parla di educazione ci si riferisce a un intervento intenzionale, orientato verso degli obiettivi che si ritengono positivi. Si pensa e ci si riferisce spesso a come le cose dovrebbero essere ma sarebbe opportuno chiedersi anche come sono e il senso che ricoprono per noi e per gli altri.Occorre riuscire a intrecciare passioni diverse, a partire dalle nostre ed essere consapevoli delle motivazioni che ci spingono a scegliere il percorso infanzia.
Delle nuove generazioni in fondo non so dire niente, a scuola e nel mio lavoro di formatore cerco solo di camminare un passo avanti, non perché penso di poter indicare una strada, ma per insegnare a riconoscere le asperità del cammino: insomma vorrei che gli studenti avessero almeno gli ‘occhiali’ per vedere la realtà da più punti di vista e con occhi diversi.


LIBRO BIANCO SULLA SCUOLA MATERNA. TESTI E DOCUMENTI DEGLI ATTI PARLAMENTARI, Il Mulino, Bologna, 1966
[2]Orientamenti per la scuola materna, 1969
[3]SALOMONE I., Il setting pedagogico, Roma, Ed.Carocci, p.99
[4]SALOMONE, Il setting pedagogico, Roma, Ed.Carocci, pp.44-45
[5]CAMBI F. (a cura di), Le intenzioni nel processo formativo, Pisa, Del Cerro, 2005
[6]Mi riferisco all’esperienza raccontata nel film: «Sotto il celio azzurro».
[7]CAPPERUCCI D., Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare, Milano, Franco Angeli, 2008


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