giovedì 21 novembre 2013

A proposito di...
“ I maschi mi piacciono perché…”


Bambini, ottobre 2013

Antonella Panchetti, tutor Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Università degli Studi di Firenze, e insegnante di Scuola dell'Infanzia presso I.C. di Vinci, Firenze. 

Anche la scorsa settimana un ragazzo si è suicidato per la sua presunta omosessualità. È l'ennesimo di una lunga serie. In questi giorni mi sono interrogata su quali strumenti può avere la scuola per rispondere a questo disagio.
Se le persone esprimono il loro orientamento sessuale attraverso dei comportamenti verbali e non verbali; l'identità di genere invece indica il sentimento di appartenenza di una persona ad un sesso piuttosto che ad un altro. Si tratta della percezione che ognuno ha di sé come uomo e come donna.

Analizzare il genere significa affrontare il tema della formazione dell'individuo dal punto di vista della differenza e della relazione fra maschi e femmine, ma porta anche ad analizzare il ruolo della scuola e della famiglia, insieme ai condizionamenti, alle aspettative e ai modelli che più o meno intenzionalmente trasmettono.
Spesso succede che la differente identità sessuale, l'orientamento sessuale e il ruolo di genere non interpretato secondo la “norma”, sono oggetto di stigmatizzazione. La scuola che dovrebbe essere un luogo di incontro, di cura e di ascolto, diventa teatro di insulti. Le parole sono come i colori, hanno le sfumature, e l'insulto è il modo con il quale un adolescente non eterosessuale viene a contatto con la percezione di sé rispecchiata negli altri: l'attenzione al linguaggio di insulto, da parte di coetanei da cui vorrebbe sentirsi accolto e accettato come appartenente al gruppo, mostra dei “film mentali” al soggetto tali che sceglie il suicidio.
L'identità di genere è un tema poco trattato e messo da parte nella scuola di tutti gli ordini e gradi, perché anche il solo parlarne crea imbarazzo anche in una società complessa e piena di antinomie come la nostra.
Leggere il percorso didattico condotto all'interno della scuola dell'infanzia dalla collega Mariagiuseppina Basile mostra finalmente una sensibilità verso questo argomento da sempre non considerato; oggi, più che in altri periodi storici, crescere maschi e femmine non è scontato. E anche essere maschi o femmine nella scuola dell'infanzia, a seconda dell'insegnante che un bambino incontra, può fare la sua differenza, perché ci sono insegnanti che prediligono i bambini appartenenti ad un sesso in maniera spiccata; per esempio il fare indossare “obbligatoriamente” i grembiulini celesti per i bambini e rosa per le femmine la dice lunga sul modello educativo che c'è dietro il progetto educativo di un plesso. Ci sono realtà dove al bambino non viene tolto il grembiulino neppure quando lo chiede, o quando è caldo. E spesso indossare il grembiulino di un altro colore o fantasia crea discriminazione solamente perché esce dalle righe, dagli schemi mentali dell'insegnante.
Dietro “ come si va a lavorare con la divisa, a scuola si va con il grembiule “ e “ serve per non sporcarsi ” si cela un mondo di discriminazione. Primo perché il bambino ha diritto a sporcarsi, dato che entra in relazione col mondo mettendosi in gioco, prima di tutto col corpo. Pensate che in alcune sezioni di scuola dell'infanzia i bambini non possono neppure giocare con le costruzioni per terra, o sotto i tavoli; addirittura capita che sempre più spesso il gioco simbolico, dove tra l'altro si osserva che i bambini di tre-sei anni non discriminano i “giochi per i maschi” e i “giochi per le femmine”, e il gioco libero vengono intese come attività ricreative e non attività vere e proprie per il bambino di questa fascia d'età. Secondo perché quei grembiuli sono terribilmente scomodi e quando si portano i bambini in bagno spesso i maschietti di tre anni se li macchiano di pipì e la risposta da parte delle insegnanti non è quella di valutare l'opportunità del grembiulino, ma far sedere i bambini a far pipì come le bambine.
Ed ecco che allora di nuovo si torna a puntare l'attenzione su come è l'insegnante e sulla sua formazione sulla “ consapevolezza della necessità di rivolgere l'attenzione ai bambini, al fine di prevenire il radicamento dei consueti stereotipi in materia di differenze di genere promuovendo una nuova didattica attenta e critica ”. Le proposte educative infatti sono sempre proposte di valore e i valori che si trasmettono sono importanti sin dalla scuola dell'infanzia e le insegnanti dovrebbero esserne consapevoli.
“La scuola dell'infanzia è il luogo per eccellenza di formazione delle identità, il posto in cui si viene a contatto con la diversità e, attraverso il confronto con essa, si definisce la propria persona; è proprio in questa scuola che si promuove lo sviluppo dell'identità per “imparare a conoscersi e a sentirsi riconosciuti come persona unica e irripetibile in continua dialettica con l'altro da sé”.
Sarebbe opportuno che finalmente dilagassero metodologie inclusive che partano: dall'osservazione, dall'ascolto, dal valorizzare il momento del cerchio come luogo di incontro di sé e dell'altro, dalla costruzione di un gruppo dove il bambino si riconosce, dal proporre attività differenziate a seconda degli obiettivi, dal diffondersi di una didattica non stereotipata e di proposte didattiche anche negoziate con gli alunni dove vengono valorizzati la pluralità dei linguaggi e valorizzate tutte quelle attività pro-sociali fondamentali per vivere bene a scuola.
L'Italia è l'unico Paese d'Europa dove all'interno delle scuole ci siamo battuti per dei valori legati all'integrazione e all'inclusività, L.517/77, ma per imparare a come andare avanti per costruire realmente una scuola inclusiva, e superare il grosso gap tra ciò che si dichiara in teoria e l'azione quotidiana in aula, dobbiamo assolutamente guardare ai modelli educativi e didattici del nord Europa.
Le prepotenze avvengono in tutte le scuole e riconoscere che questo succede è già un primo passo per prevenire e ridurre la portata del problema. Un altro luogo comune su cui riflettere e sicuramente da evitare è il pensare che l'atto di bullismo non sia una prepotenza, ma solo una ragazzata. Alcune persone tendono a sottovalutare il problema ritenendo che si tratta di cose di poco conto poiché rientra nella cultura maschile farsi valere. Il bullismo non è un gioco, ma è un comportamento capace di lasciare profonde ferite in chi lo subisce. Quindi gli insegnanti dovrebbero attivarsi perché la scuola diventi un luogo sicuro per tutti i ragazzi.
Anche nella scuola dell'infanzia spesso le insegnanti preferiscono tenere i bambini ai tavoli impegnati in attività dirette dall'adulto invece che dare spazio alla molteplicità delle tipologie di gioco e di confronto anche semplicemente raccontando ciò che fanno e ciò che gli piace . I bambini passano molto tempo ai tavoli e realizzano bei lavori e mostrano l'efficienza delle insegnanti e della scuola. L'aspetto più importante, l'aspetto relazionale, viene lasciato in secondo piano e sempre più spesso si notano bambini che non sanno più giocare, né stare insieme. Si apprende a giocare, giocando e per giocare occorre tempo, così pure si impara a stare con gli altri, aiutando a confrontarsi.
Le persone che soffrono di gravi disturbi mentali non sanno giocare né relazionarsi in maniera adeguata e la nostra società, sempre più di corsa, non riconosce più valore al gioco libero tra bambini, né tanto meno la loro “voce”. Non dimentichiamoci che l'etimologia della parola infanzia riconduce a “ essere senza parola ”. Le insegnanti di scuola dell'infanzia dovrebbero misurarsi sul livello di non discriminazione e di inclusività raggiunto dai bambini della sezione e non sulla visibilità dei progetti che svolgono e dalle belle documentazioni che producono.
In molti casi la famiglia, soprattutto in età preadolescenziale e adolescenziale, delega alla scuola la soluzione del problema, ritenendo che i docenti siano in grado di capire le problematiche degli alunni, ma spesso, però, essi hanno una percezione poco in linea con quella degli alunni, rilevando solo le situazioni gravi di natura fisica e sottostimano gli effetti del comportamento verbale e non verbale. Per questo motivo per evitare il bullismo in generale e in particolare quello omofobico è necessario che tutti, dalla famiglia alla scuola, si impegnino perché ciò non avvenga. Occorre sapersi assumere a tutti i livelli le responsabilità che competono. E una delle maggiori prerogative di responsabilità delle insegnanti della scuola dell'infanzia è appunto insegnare a vivere bene insieme.
Mi piace terminare questo commento con una frase del prof. Lamberto Borghi pronunciata proprio all'interno del Senato accademico fiorentino agli inizi degli anni '60 quando un docente, scoperto non eterosessuale, sollevò non poche critiche da parte dei colleghi: “ la diversità non è un reato!”

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