mercoledì 18 dicembre 2013

A proposito di...
“La medicalizzazione della pedagogia”

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Antonella Panchetti, tutor Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Università di Firenze e insegnante di scuola dell'infanzia presso I.C. di Vinci, Firenze

Nel commentare il bell'articolo (“Bambini”, dicembre 2013), esaustivo, ben scritto e documentato di Martina
Riccio, che condivido nelle argomentazioni che affronta, colgo l'occasione per soffermarmi sul “ cambiamento di rotta ” che anch'io rilevo, purtroppo, negli atteggiamenti e nei comportamenti degli insegnanti di scuola, che mostrano l'apertura di nuovi scenari quasi teatrali.

Quante volte le insegnanti di scuola dell'infanzia si incontrano con quelle di scuola primaria e si rendono conto che utilizzano le solite parole che rappresentano però significati diversi? Come è difficile comunicare quando si utilizza un vocabolario dove ciascuno intende secondo i propri schemi mentali già precostituiti!

È innegabile che la verticalizzazione degli Istituti Comprensivi modifica il senso e il significato di tanti termini che si usano nella scuola dell'infanzia ed “è necessario interrogarsi sulla responsabilità sociale della scuola che sempre più rinuncia al proprio ruolo di promozione dell'equità di accesso alle risorse per trasformarsi in un sistema di produzione di abilità e capacità che siano “di successo” nel mercato del lavoro”. 

“La scuola (è) sempre più un sistema vicino al modello capitalistico di produzione, in cui l'azione pedagogica si trasforma e si riduce ad un adeguamento del soggetto agli standard di socializzazione e produttività richiesti dal mercato, piuttosto che uno spazio di promozione dell'equità sociale”: in questi anni è facile notare come le insegnanti utilizzano sempre più una terminologia aziendale legata al mondo dell'organizzazione unita a un uso sempre più frequente di un lessico di natura psicologica e medica.

Quanti termini nuovi appartenenti alla psicologia e all'ambito sanitario le insegnanti utilizzano? E in quali contesti? E quante volte dilagano nel corpo docente termini come “ iperattivo ” e “ psicotico ” e molti altri termini propri della “ diagnostica medica ” in maniera impropria?

Anche parlando tra insegnanti di scuola dell'infanzia emerge con chiarezza che sta prendendo campo u na sorta di ‘ medicalizzazione ' degli atteggiamenti tipici dei bambini, un fatto che sembra stia dilatandosi in Italia in modo preoccupante suffragato, appunto, dall'utilizzo di questa terminologia, in maniera dilagante proprio nella scuola.

Certe locuzioni sono sintomatiche e sempre più vengono usate anche nella comunicazione ufficiale delle “liturgie istituzionali”; per esempio nei Collegi dei Docenti è d'uso ordinario esprimersi con frasi e terminologia di questo tipo: “ io ho due dislessici, tre disortografici, due autistici….” . Non esiste più Piero, Maria, Simone, il nome del bambino; ma la diagnosi ha il sopravvento sulla “persona” ed il bambino rimane nello sfondo.

Pure l'editoria che riguarda la scuola dell'infanzia, che lavora sui cambiamenti in atto, sceglie tra i titoli dei testi più “commercializzati” verbi come “preparare”, “allenare”, “potenziare”, e la parola “difficoltà” da cui si intuisce la pretesa di pervenire a delle certezze che rassicurino il potenziale acquirente, “l'insegnante in difficoltà”. Sul piano dei contenuti sarebbe opportuno che evitassero l'induzione alla banalità (ripetizione passiva, semplificazione esasperata di ciò che invece è complesso) e inducessero ad accettare come sfida la problematicità dell'esistenza umana. Più che il contenuto sarebbe opportuno che si soffermassero sul modo in cui potrebbe venir utilizzato ed in particolare sulle strategie che favoriscono il coinvolgimento dei bambini nell'apprendimento; non dovrebbero contenere ricette da applicare, ma essere uno stimolo perché l'insegnante sia il “regista” dell'esperienza educativa.

Perfino la posizione fisica dell'insegnante di sostegno in molte aule scolastiche la dice lunga su “ questo cambiamento di rotta ” della professionalità docente. Infatti spesso o siede vicino al/la bambino/a certificato/a, o è fuori dell'aula con lui/lei e si occupa esclusivamente del soggetto affidatogli. Generalmente si esce da un luogo quando non ci si sente accolti, oppure quando ciò che vi è proposto è lontano da noi, dai nostri interessi e dalle nostre curiosità, oppure quando si reputa più importante curare aspetti che in quell'ambiente non vengono curati. Vorrei in questa sede ricordare però che tutti i docenti della sezione hanno la responsabilità della realizzazione del processo di integrazione e di inclusione scolastica e l'insegnante " di sostegno ” dovrebbe condividere con tutti gli altri colleghi i compiti professionali e le responsabilità sull'intera classe e ciò lo dovrebbe dimostrare anche da come si muove e sostiene ad organizzare le attività “per tutti e per ciascuno” in aula. Dovrebbe configurarsi come un insegnante "per" il sostegno o, meglio, per attivare le varie forme di sostegno che la sezione necessita. Di conseguenza non dovrebbe avere un alunno “esclusivo” a cui stare accanto, ma essere un “mediatore di relazioni e di contenuti” e, quindi, conoscere una pluralità di strategie didattico metodologiche specifiche, da suggerire alle insegnanti di sezione (e non necessariamente contenuti specifici, che molto spesso riguardano schede stereotipate).

Questo approccio culturale che si sta diffondendo mostra quanto gli insegnanti si diano da fare attivando interventi che puntano a tecniche pre-confezionate, cercando di far superare il problema senza però mostrare nessun interesse “ al sentire ” che il bambino sta vivendo, ma concentrandosi su ciò che non va. In altre parole è come se il bambino fosse paragonato ad una macchina, dove l'attenzione è puntata su ciò che è in difetto, il guasto. Ma il bambino non è una macchina, è una persona con una storia e occorrerebbe separare i problemi legati al comportamento e alla sfera affettiva dall'oggettività clinica.

Medicalizzazione della pedagogia….

Cosa significa “medicalizzazione”? Sul Dizionario della Lingua Italiana Sabatini Coletti del 2004 si legge “ conferimento di carattere medico a un fenomeno di un altro tipo ”.

La dizione “ medicalizzazione ” assomiglia tanto a quella di “ medicazione ”… .

Per le insegnanti di scuola dell'infanzia medicare significa disinfettare una ferita superficiale dovuta ad una caduta. Sul solito dizionario infatti si legge “ applicazione terapeutica locale con cui si protegge e si tratta una lesione esterna ”. Ma in psichiatria “ medicazione ” ha un significato diverso: è un trattamento farmacologico molto potente. È una “ medic-azione ”, un intervento medico dove ha un ruolo strategico l'azione, la strategia appunto.

“Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità i disturbi del comportamento infantile nel mondo sono in aumento: In Europa i bambini che soffrono di questi disturbi sono tra il 10-20%. In Italia i bambini che assumono psicofarmaci sono tra i 30.000 e i 60.000, a fronte di circa 70.000 che sarebbero curati per la ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività) , sulla quale peraltro, ha precisato la vicepresidente del parlamento UE, non vi è nessuna certezza, nella comunità scientifica, che sia una vera e propria malattia ”. Questi alcuni dei dati resi noti dall'On. Roberta Angelilli nel corso della conferenza stampa “ Psicofarmaci e minori: tra abuso e disinformazione ” svoltasi il 4 dicembre 2009 a Roma.

Anche il dott. Raffaele Ciambrone (MIUR, Direzione generale per lo studente, la partecipazione, l'integrazione e la comunicazione) afferma che oltre 3000 degli alunni con sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) sono sottoposti a trattamento farmacologico e sono monitorati in un apposito registro dall'Istituto Superiore di Sanità (ISS). Ma è lo stesso ISS a indicare che la percentuale di alunni con ADHD si avvicina all'1% della popolazione scolastica, cioè a circa 80000 allievi1.

L'infanzia non compresa, quella che lancia sfide educative, è quella che finisce alla deriva ‘farmacologica', perché è molto più semplice curare con i farmaci che cercare di agire sui contesti che producono i disagi. Così può succedere che un bambino in difficoltà sia trattato con psicofarmaci solamente perché non vi sono le necessarie conoscenze e/o investimenti pedagogico-educativi per aiutarlo a superare le proprie difficoltà comportamentali nell'ambiente dove interagisce con gli altri.

Esiste, quindi, un reale rischio che l'etichettamento psicopatologico porti a un conseguente abuso di sostanze psicotrope sui bambini anche nel nostro Paese.

“Il confine che separa pratiche di sostegno a chi incontra maggiori difficoltà in contesto scolastico e la ridefinizione (…) (dei termini) di tali difficoltà, è un confine labile e sottile, un confine che oscilla tra tentativi di inclusione e politiche di stigmatizzazione che deve essere necessariamente e costantemente messo in discussione per evitare di cristallizzarsi in paradigmi istituzionali di esclusione”.

L'etichettamento psicopatologico è il primo passo per allontanare il problema dalla scuola , perché tutti rinviano la responsabilità alla “stanza accanto”: non è colpa del bambino, non è colpa dei genitori, non è colpa dell'insegnante, non è colpa del contesto in cui vive, non è colpa della scuola, ma è colpa della “malattia2. Tutti rimangono “buoni e bravi”, è solo il sintomo che non va e, quindi, va curato.

Il problema è spostato così dalla scuola ai centri specializzati pubblici e privati. I servizi zonali delle AUSL che si occupano di infanzia hanno così liste di attesa impensabili, al limite del collasso, perché qualsiasi bambino che “fuoriesce” dai tempi e dai modi per l'apprendimento in aula è segnalato ai genitori che vengono invitati a rivolgersi ai servizi…

“Potremmo quasi dire che lo spazio medico e quello scolastico agiscono all'interno di un meccanismo circolare di produzione della disabilità che si dispiega in modo tautologico: i /le bambini/e che risultano “deficitari/e” rispetto ad un particolare modello scolastico (che definisce determinati tempi e modi previsti per l'apprendimento) vengono poi clinicamente valutati /e attraverso scale e test che fanno esplicito riferimento a tale modello e che, quindi, spesso finiscono per riconfermare il deficit del soggetto rispetto ai parametri definiti”.

“Entrambi i modelli collaborano a una medicalizzazione del comportamento infantile che vede principalmente nell'individuo, e al massimo nella sua famiglia, la causa dei suoi deficit e che ridefinisce nei termini medici della dis-abilità questa mancanza, senza che venga messo in discussione il modello educativo all'interno del quale le disabilità dell'apprendimento sono prodotte”.

Le insegnanti devono essere consapevoli “di questo gioco perverso” dove “le risorse investite nella scuola diminuisco, ma si espande il lato medico dello screening e delle diagnosi” . “Aumentano così i corsi di formazione e i master in didattica e psicopatologia dei disturbi di apprendimento(…) che insistono sulla necessità che gli insegnanti riconoscano precocemente i bambini sospetti e segnalarli ai genitori”. Ed è il privato, poi, che ne trae il maggior vantaggio: chi organizza corsi di formazione da un lato e psicologi e neuropsichiatri dall'altro, che spesso si arricchiscono su disturbi fittizi.

Ma questo non è il peggio… il peggio è ciò che ci sta dietro… “ il fantasma ” che potrebbe tornare in vita… perché tutti siamo d'accordo che le insegnanti devono cogliere i segnali di disagio che i bambini inviano, segnalarli ai genitori e che i bambini in difficoltà vanno aiutati, ma è sulla strada che stiamo prendendo che dobbiamo riflettere… .

Tutti noi potremmo essere classificati come portatori di Bisogni Educativi Speciali ( B.E.S) .

In questo gioco “risorgono” e “si espandono” all'interno degli ospedali i reparti di Neuropsichiatria infantile, “sorellina” della Psichiatria. Nascono come funghi in autunno dopo la pioggia…e poi, i posti letto “protetti”… .

Vorrei ricordare il famoso testo di Michel Foucault del 1961 3 dove si afferma che prima nasce l'istituzione manicomiale, ma solamente poi verrà considerata in questi termini, secondo il quale le persone ospiti di questi luoghi hanno “difetti” al cervello. L'origine del manicomio infatti è quella dell'ospizio 4 dove vengono portati bambini senza genitori, persone che non ce la facevano a trovare un modo di vivere nel contesto in cui erano inseriti, insomma era un luogo destinato agli emarginati. Insomma prima si concordano “chi li cura” poi si individuano i “diversi”; come ci spiega Michael Foucault: prima sorgono le istituzioni, dopo si riempiono. E chi si arricchisce di più è la classe medica e, senz'altro, le case farmaceutiche.

In questo gioco perverso, l'insegnante ha una grande responsabilità, perché gli esclusi sono coloro che non riescono ad inserirsi, che molto spesso hanno difficoltà relazionali che andrebbero gestite migliorando e affinando strumenti di gestione della relazione educativa volta all'ascolto e a favorire la negoziazione e la condivisione di significati.

Se un bambino ha un comportamento inadeguato lo fa per un motivo. Che poi questo motivo sia discutibile e gli effetti siano spiacevoli è un altro discorso, ma i motivi ci sono. Nessuno fa le cose senza motivo.

Dicembre 1993. Un uomo di poco più di 50 anni è seduto sul seggiolino posteriore dell'auto del servizio che guido. Lo accompagno ad una festa che abbiamo organizzato in una casa famiglia nel paese da cui proviene e da cui è stato allontanato tanti anni prima con un'ordinanza del Sindaco che gli ha intimato di non tornare. Nonostante sia pomeriggio è già buio e lui è stranamente silenzioso. Gli ho chiesto di non fumare, dato che fuma due stecche di sigarette al giorno e stranamente… non parla. Mi preoccupa un po' , perché è un “matto di quelli veri” e ha scelto di sedersi sui sedili posteriori, così, di tanto in tanto, lo tengo d'occhio dagli specchietti retrovisori. Guarda fuori dal finestrino… Arriviamo al paese che è tutto illuminato a festa. È sempre in silenzio, ma il suo sguardo fuori dal finestrino mi parla della sua curiosità di rivedere i suoi luoghi. Così in silenzio e con la possibilità di entrare in centro, allungo la strada che mi separa dalla meta che io mi ero posta e lo accompagno in quello strano vagabondare a passo d'uomo nelle vie illuminate a festa della città, piene di colori e di persone colme di pacchetti regalo in mano che si affrettano freddolose a passeggiare per gli ultimi acquisti prima del Natale. Guarda fuori dal finestrino come un bambino, attonito. Quando usciamo dalla via principale fa un gran sospiro e mi accorgo che dai suoi occhi, in silenzio, scendono lacrime.

Piero ora è morto. E' vissuto in manicomio ad Arezzo per 40 anni dopodiché, grazie alla riforma psichiatrica, in una casa famiglia della zona. Con lui si sono confrontati tutti gli psichiatri della “vecchia guardia” perché la sua pazzia affascinava. Anche io l'ho conosciuto e lo ricordo. Era entrato in manicomio per la prima volta a 9 anni.

Nella mia esperienza con ex-degenti dell'ospedale psichiatrico ho capito che si poteva essere ricoverati con la forza, o con la persuasione; perché eri in contraddizione con i costumi dell'epoca, o con te stesso; o perché non capivano cosa ti stava succedendo; perché eri un emarginato o un portatore di handicap . L'internamento comunque veniva con modalità del tutto arbitrarie e ciò lo confermano gli adulti ricoverati da bambini.

Quando riuscirò a vedere nel bambino che mi sta davanti “ la persona ” alla quale dovrò far fare non solo attività che mostrano quanto io insegnante sono bravo, ma alla quale dovrò fornire tempi, spazi e contesti per acquisire strumenti per orientarsi a capire sé , i propri desideri e le proprie aspettative e i sensi e i significati del gruppo sociale a cui appartiene, e avrò fatto questo utilizzando come strumenti il gioco, la condivisione di significati e le attività laboratoriali che permettono al bambino di rapportarsi alle cose, alle persone e alle idee in maniera autonoma e creativa, allora avrò agito con responsabilità e con coscienza.

Dicembre…. Anni fa rientrando a scuola il giorno prima delle vacanze natalizie, il giorno della grande festa, perché arriva Babbo Natale a scuola, mi colpì un bambino del primo anno che invece di stare nel salone insieme a tutti quanti era tornato quatto quatto in aula, a piangere fragorosamente, di fronte alla porta finestra. Nonostante i canti e la confusione, sentii quel pianto, disperato, mi colpì…. E mi riportò in aula… a vedere da chi provenisse… In quel pianto sentii il buio, il nero e un dolore incontenibile…. Che andava ben oltre la sua richiesta della mamma e della nonna….Un buio che mi mostrava scenari devastanti…. Come si dimostrò successivamente…

Non volle venire con gli altri, non volle farsi prendere in collo, né accettò una caramella, né parlare con me, ma ripeteva ossessivamente due frasi, senza riuscire a farsi consolare…. Voleva rimanere a piangere di fronte alla porta finestra. E basta.

Mentre tutta la scuola festeggiava il giorno più bello dell'anno presi una sedia, di quelle piccole, e mi sedetti accanto a lui e mentre continuava a piangere disperato gli offrii la mia mano. E mentre mi ripeteva che voleva la mamma e la nonna, lui l'accettò…

L'incontro delle nostre mani segnarono l'inizio di un'alleanza speciale… tra una maestra e un bambino … e il lanciare di una sfida: fargli sentire che non era solo!

 

Cfr. CIAMBRONE R., I bisogni educativi speciali nella scuola italiana , in Psicologia e scuola, Ed. Giunti, Firenze, n.29, sett.-ott.2013. torna su

A tal proposito invito le insegnanti a cercare sul dizionario le definizioni di “malattia”, “disturbo” e “sindrome”. torna su

Cfr. Michel Foucault, Storia della follia , Ed. BUR, Milano, 1969. torna su

A Firenze ne è un esempio l'Istituto degli Innocenti dove i bambini abbandonati venivano lasciati alla “ruota” che rappresentava il confine tra legittimità e diversità. torna su

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