lunedì 23 giugno 2014

Andate e ritorni. Le questioni che rimangono sempre e ostinatamente aperte. Qualche idea e approfondimento.

Nell'ultimo numero della rivista Bambini potete trovare un approfondimento specifico sul tema delle "didattiche". Nell'articolo di apertura abbiamo segnalato diversi articoli e spunti, che vi offriamo qui di seguito per approfondire i temi aperti.

In breve:
due articoli:
Bruno Ciari: il bambino tecnologico, a cura di Battista Quinto Borghi
[...] “In verità, purtroppo, ...non si parte affatto dal fanciullo; il maestro... ha già pronto, se è diligente, tutto il suo programma di esercitazioni; ha in testa il suo “metodo”... il ragazzo diventa subito schiavo del procedimento”; la sua personalità, la sua esperienza di vita, è rimasta fuori... (da: Bruno Ciari, Le nuove tecniche didattiche, Editori riuniti, Roma, 1971, p. 19).

Quale didattica al nido? di Aldo Fortunati e Gloria Tognetti
[...] Un progetto didattico in quanto tale non può essere completamente predeterminato ma deve prevedere un margine di flessibilità che permetta il suo rimodellamento in base ai feedbacks provenienti dall'esperienza, un progressivo riaggiustamento collegato a quanto i bambini, agendo al suo interno, ci fanno capire rispetto alla adeguatezza della proposta. [...]

due Pillole di Effe
Senza titolo... ovvero “gioco per un dito che esplora il colore dentro al piatto”
[...] “A loro piace molto giocare con i travasi - commenta l’insegnante – è un’attività che proponiamo spesso ai bambini di tre anni.” [...]

Contorni da rispettare
[...] anche questa tecnica, come tutte, rischia di prendere la mano a chi la utilizza: ritagliando un disegno [di un bambino] si possono eliminare segni che si ritengono sbagliati o inutili, [...] Conseguentemente, guardando il risultato finale diventa impossibile capire se siamo davanti a un prodotto infantile confezionato da un adulto o a un prodotto adulto che utilizza un elaborato infantile. [...]


Ecco i materiali


Bruno Ciari: il bambino tecnologico
Bambini, maggio 2000
Note d'archivio
a cura di Battista Quinto Borghi
Direttore delle scuole dell'infanzia del Comune di Brescia

Il volume di Bruno Ciari, “Le nuove tecniche didattiche”, pubblicato nel 1961, rappresenta un contributo che, in quegli anni, fu destinato ad incidere profondamente sul rinnovamento della scuola di base in Italia.
Bruno Ciari era un maestro elementare, ammiratore della tenace attività di Célestin Freinet ed attivista del Movimento di Cooperazione Educativa, che si proponeva di offrire agli insegnanti uno strumento che voleva essere un aiuto concreto per i maestri nella loro pratica educativa e formativa quotidiana.
Il libro è organizzato in sette capitoli. Il volume si muove nella scia, in quegli anni non ancora certamente esaurita, dell'attivismo pedagogico.
Si presenta, a prima vista, come un repertorio di proposte di attività: il disegno e la pittura, la lingua, la ricerca scientifica e la matematica.
Le tesi di fondo di Bruno Ciari sembrano essere due: da un lato, egli sostiene che occorre partire sempre dal bambino, dall'altro, che è indispensabile, per una scuola valida, puntare sui saperi. Si tratta di due assunti solo apparentemente inconciliabili.
Da una parte incontriamo un bambino inteso come ampiamente disponibile
alla conoscenza ed all'esperienza. Dall'altra si può correre il rischio che l'insegnante, che incontra quello stesso bambino, abbia già nella testa un proprio metodo, abbia già individuato a monte un proprio percorso che il bambino dovrebbe limitarsi a seguire.
Il rischio, temuto per la scuola di allora, era che l'insegnante non sentisse il bisogno di conoscere a fondo i singoli bambini per portare avanti il proprio progetto.
“In verità, purtroppo, ... non si parte affatto dal fanciullo; il maestro... ha già pronto, se è diligente, tutto il suo programma di esercitazioni; ha in testa il suo 'metodo'... Il ragazzo diventa subito schiavo del 'procedimento'; la sua personalità, la sua esperienza di vita, è rimasta fuori..." (B. Ciari, Le nuove tecniche didattiche, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 19)..
Più oltre, Ciari dichiara, a proposito delle scienze, che "la conoscenza scientifica ha inizio con l'atto stesso della nascita... Che vuol dire conoscere scientificamente il mondo se non prendere atto dell'esistenza dei fenomeni, per utilizzarli e trasformarli?" (Ciari, op. cit., p. 150).
Insomma, secondo Ciari, da un lato occorre puntare sul protagonismo del bambino, dall'altro, sulla validità del contenuto.
Il bambino è, in altre parole, artefice della propria crescita. La scuola, compresa quella dell'infanzia, è perciò, essenzialmente e inevitabilmente, un luogo di azione. Un luogo nel quale i bambini e le bambine fanno continuamente delle cose.
Il bambino in età della scuola dell'infanzia avverte il bisogno delle attività più svariate, di provare e di provarsi.
È continuamente in movimento, in ogni istante è impegnato a fare qualcosa.
E il compito della scuola è di trasformare l'esperienza dei bambini facendola passare da un movimento disordinato e dispersivo a un ritmo ordinato e costruttivo. La scuola dell'infanzia aiuta il bambino ad organizzarsi e ad organizzare la realtà che gli sta intorno.
Dal testo di Ciari emerge un'attenzione forte alle nuove ricerche di quegli anni sullo sviluppo psicologico; la conclusione alla quale arriva è che il contenuto è importante: le abilità e le conoscenze specifiche sono paganti sul piano dello sviluppo in generale.
In altre parole, le esperienze che vengono proposte ai bambini non sono indifferenti: i bambini imparano soprattutto quando fanno le cose, quando vi si immergono, quando riescono ad essere concentrati per la soluzione di un problema.
I bambini non risolvono mai un problema in generale, ma sempre quel determinato e specifico problema che li coinvolge in quel determinato momento.
È solo risolvendo un problema specifico che si crea un habitus, una predisposizione a lavorare per soluzione di problemi.

Per molto tempo il dibattito pedagogico ha messo in discussione – sul piano antinomico – questi due assunti. Vi è chi ha puntato tutto sull'attenzione al bambino, correndo il rischio di non riuscire ad andare avanti. La scuola dell'infanzia è diventata in qualche caso un luogo di attesa in cui, in nome del rispetto che gli si doveva, al bambino non venivano formulate proposte e fatte richieste. In nome del benessere del bambino, si è vista come pericolosa anche l'idea di raggiungere qualche traguardo.
Vi è chi ha condannato il piano dei contenuti di attività, cercando un “senso” pedagogico che andasse al di là, e considerando i contenuti indifferenti rispetto allo sviluppo.
Tutto questo sulla base del timore di costruire un bambino solamente “sociale” rispetto ad un necessario sistema di “valori” che dovevano trascendere le singole esperienze di apprendimento. Il bambino, proiettato nell'attività, corre il rischio di diventare essenzialmente un prodotto sociale. Su questa scia non sono mancati gli inni alla spontaneità e le critiche ad un presunto eccesso di richieste ai bambini.
Questi problemi sembrano essere ben chiari a Bruno Ciari.
“Le nuove tecniche didattiche” affrontano sistematicamente entrambi questi aspetti e, da questo punto di vista, non sembrano avere perso la loro attualità.
La scuola ha il compito irrinunciabile di fornire a tutti i bambini degli strumenti culturali come condizione indispensabile di sviluppo e di realizzazione di sé (e, se vogliamo, anche di realizzazione della persona): nulla più della cultura può favorire tale crescita. E, per fare questo, occorre un'attenzione individualizzata a tutti i bambini per garantire ad ognuno tale possibilità di crescere.
Ciari più di altri sembra teorizzare il primato e l'autonomia della didattica sulla formazione del bambino.
Non va poi dimenticata l'organizzazione che costantemente emerge fra le righe di questo testo.
È sufficiente rileggere le pagine dedicate al sorgere della comunità scolastica, al suo progressivo sviluppo, all'organizzazione del lavoro, alle forme di articolazione cooperativa, alle diverse forme di autovalutazione.
Sono pagine che conservano ancora intatta una loro freschezza e una loro indubbia validità.



Quale didattica nel nido?
Ritmi individuali e attività strutturate, risorse e obiettivi, agire strategico e verifiche
Bambini, ottobre 1991

di Aldo Fortunati, Pedagogista, San Miniato (Pi) e Gloria Tognetti, Educatrice asilo nido, Empoli (Fi)

Testo dell'intervento presentato in occasione del II interscambio  fra Italia e Spagna sui temi dell'infanzia e dell'educazione da 0 a 6 anni. Barcellona, 8-12 luglio 1991

Introduzione al problema
Questo intervento vuole proporre una serie di riflessioni sul tema della programmazione nel nido, pensando, in particolare, a quali siano le relazioni di reciproca integrazione o di differenza fra il complesso delle situazioni che coinvolgono bambini e adulti nel corso di una giornata al nido e quelle situazioni di gioco e attività maggiormente organizzate e strutturate, che si realizzano al centro del tempo della mattina.
Alcune discutibili tendenze in atto nel nostro paese enfatizzano il tema della programmazione anche nel nido, sottolineando la sua necessità per uscire dall'occasionalità delle proposte e attribuire senso "scientifico" all'agire dell'educatore; a questo punto di vista consegue spesso un'enfasi sugli aspetti cognitivi, sui momenti di verifica, sulle situazioni organizzate, su un ruolo istruttivo da parte dell'adulto.
Il quesito riguarda, in questo caso, se l'accentuazione della didattica e in particolare di una didattica con tempi e modi decisi in gran parte dall'adulto, sia integrabile all'interno di una corretta visione del bambino e delle qualità e caratteristiche di un contesto come il nido o se, invece, non produca distorsioni e snaturamenti, sia del bambino che del nido, verso immagini e modi di educare che fanno parte - e non sempre nel bene - dei contesti scolastici.
Il nostro dubbio, che esplicitiamo da subito, riguarda il fatto che direzioni di prospettiva di questo genere, fondate sul condivisibile auspicio che il nido acquisisca un abito pedagogico forte, rischiano seriamente di raggiungere mete ben diverse, come, per esempio, uno schiacciamento e appiattimento dei modelli in una direzione anticipazionista, del tutto irrispettosa non tanto della magia di un mondo infantile tutto fantasia e spontaneità, quanto delle caratteristiche dei bambini piccoli e dei processi di esperienza e conoscenza: l'abito pedagogico del nido non può essere un “travestimento”, ma va fatto - come è accaduto in molte significative realtà - su misura.

Dal progetto a pezzi al progetto come rete
La tesi che qui sosteniamo è quello del nido come ecologia complessa e del progetto educativo come insieme articolato di situazioni, connesse tra loro, all'interno delle qualità sia rintracciabile una sorta di coerenza rispetto all'idea di bambino al quale si fa riferimento, a quali processi educativi si intende attivare e sostenere, a quale educatore si intende essere ecc.
Uno sguardo retrospettivo sull'esperienza di molti educatori conduce a rilevare spesso, nel passato, l'assenza di coerenza rispetto alle diverse situazioni previste dall'organizzazione del nido: ciò che emerge è una quotidianità poco curata rispetto all'organizzazione dei momenti di gioco libero e di routines ed una eccessiva tensione rispetto alla organizzazione di attività strutturate, come se la qualità ed il significato del nido come contesto educativo passasse soltanto attraverso questi momenti, dove finalmente si parla di "didattica", di insegnamento, di verifiche ecc. (interessante riflettere su questi tipi di rappresentazione del bambino piccolo e del fatto educativo, che sembrano dipendere, si diceva, dal desiderio di emanciparsi da una immagine custodialistica del nido e del bambino come esclusivamente bisognoso di cure e affetti, ma che sembrano anche, per dirla con un proverbio consonante, "buttare via anche il
bambino con l'acqua sporca").
È andata maturando, nel tempo, la consapevolezza che la qualità dell'esperienza che il nido offre al bambino dipende dalla adeguatezza delle diverse situazioni che, nel corso della giornata, si intrecciano ed all'interno delle quali prende forma e si struttura l'esperienza soggettiva di ogni bambino e del gruppo (bambini ed adulti).
L'obiettivo del lavoro diventa quello di costruire un progetto all'interno del quale si propongono ai bambini contesti governabili e riconoscibili nel loro diverso significato, dove si cerca di sostenere il benessere psico-fisico ed intellettuale del bambino, dove la curiosità ed il desiderio di esplorazione siano incoraggiate e rispettate, in ogni momento.
Così è possibile ricomporre quella scissione tra situazioni semplicemente educative e situazioni didattiche, tanto cara a chi, enfatizzando la verificabilità dello sviluppo solo in situazioni strutturate, finisce per considerare come sfondo indeterminato, perché non quantificabile, il semplice agire quotidiano (quello meno formalizzato e formalizzabile), in cui, invece e a ben guardare, apprendimenti e saperi trovano la loro genesi e radice e costituiscono fenomeni largamente pervasivi.
Il lavoro congiunto fatto rispetto all'organizzazione degli spazi e dei gruppi, all'articolazione delle esperienze, la riflessione sul ruolo giocato dall'adulto nelle diverse situazioni, l'osservazione sistematica del comportamento dei bambini e delle stesse situazioni, vanno in questa direzione.
Questo percorso – come lavoro di indagine e ricerca – suggerisce quali prerequisiti di un'adeguata progettazione didattica l'integrazione e la continuità rispetto al complessivo progetto educativo. Se l'idea di bambino a cui facciamo riferimento è quella di bambino competente, attivo nella costruzione dei suoi processi di conoscenza, se ci riconosciamo nella definizione di "pedagogia come scienza rispettosa dell'identità e dell'autonomia dei sistemi in gioco" e nell'idea di adulto come "organizzatore di vincoli che aprono possibilità all'agire strategico del bambino", allora queste convinzioni e immagini di fondo devono essere rintracciabili sia all'interno della progettazione educativa che della progettazione didattica.
Organizzare gli spazi e i tempi della giornata, avendo in mente tutto questo, può significare disegnare un'ambiente e un sistema reticolare di esperienze possibili in cui il bambino possa muoversi bene, possa avere accesso ad una serie di oggetti in maniera autonoma, possa trovare spazi adeguati al gioco individuale o di piccolo gruppo, facendo si che le esperienze trovino un senso diluito nella giornata e, nella stessa giornata e nel tempo, un prezioso senso di continuità.

Quale didattica nel nido?
E per la progettazione didattica, quali indicazioni ci vengono da queste idee o convinzioni? Intanto, le occasioni della didattica intelligente (negoziata e costruita col bambino) - devono essere incluse nel reticolo di cui si diceva, non possono essere separate e opposte al resto, anche se naturalmente sono diverse, perché più raccolte di altre e con una presenza più attiva dell'adulto.
In secondo luogo, un progetto didattico in quanto tale non può essere completamente predeterminato ma deve prevedere un margine di flessibilità che permetta il suo rimodellamento in base ai feed-backs provenienti dall'esperienza, un progressivo riaggiustamento collegato a quanto i bambini, agendo al suo interno, ci fanno capire rispetto alla adeguatezza della proposta.
L'idea di osservatore interno al sistema e quella di una relazione circolare tra progettare/fare/osservare sono di fondamentale importanza a questo proposito. Ad esempio, predisporre una situazione in cui la proposta è la manipolazione di materiali in uno spazio troppo piccolo, o con materiali insufficienti per il numero di bambini, con la presenza di un bambino che quella mattina è molto triste e piange per tutta la durata dell'esperienza, può pregiudicare il livello ed i tempi di attenzione da parte dei bambini: la valutazione può essere semplicemente che i bambini non hanno mostrato interesse oppure può essere una riflessione sulla adeguatezza della proposta.
La scelta è dunque quella di "modelli di intervento non rigidi ma aperti al cambiamento, che assumono la provvisorietà come fondamentale equilibrio, dove lo spazio attribuito all'incertezza ed all'errore non ha nulla a che vedere con lo spazio concesso all'approssimazione ed allo spontaneismo".
La proposta di situazioni chiuse, di percorsi completamente predeterminati e prevedibili dove si chiede al bambino di mostrarsi adeguato e competente rispetto ad una risposta attesa dall'adulto, come i tanti abbinamenti di forme, colori ecc.  – dove ciò che alla fine ha valore e interessa non sembrano i processi messi in gioco ma il risultato giusto o sbagliato – male si accordano con l'idea di bambino ricco e attivo di cui parliamo e non possono certo esaurire il discorso sulla progettualità didattica.
Il concetto di flessibilità del progetto e quello di situazioni aperte al "possibile" rimanda alla riflessione sul ruolo dell'adulto: in questa prospettiva, l'educatore si definisce come colui che organizza gli scenari in base alle ipotesi che ha elaborato ed al tipo di esperienza che intende proporre al bambino; a questo ruolo sembra calzare a pennello l'imperativo di Von Foerster: “agisci in maniera tale da aumentare il numero delle scelte”.
Se si riesce ad operare una ristrutturazione del ruolo dell'educatore immaginandolo non "come causa del comportamento e dello sviluppo del bambino" ma piuttosto come regista che, dall'interno di un progetto, riesce ad introdurre le perturbazioni propizie ad innescare i processi di scoperta, costruzione e conoscenza che sono propri del bambino, regolati in gran parte dall'interno nelle modalità e nei tempi, questo equivale ad un importante cambiamento di punto di vista.
È necessario approppriarsi dell'idea che il ruolo "vincente", come educatori, non è quello del potere di chi già sa e insegna a chi ancora non sa, ma piuttosto quello di essere capaci di predisporre situazioni in cui ci sia lo spazio per la continua “negoziazione tra punti di vista diversi – quello del bambino e quello dell'adulto – orientata verso la costruzione di punti di vista nuovi”. Allora, quando si predispone una situazione; od un progetto didattico, tutto si gioca nella capacità da parte dell'adulto di dare spazio al possibile ed all'imprevedibile, al diritto di provare e riprovare, di sbagliare e imparare dall'errore, di uscire dalle regole pensate dall'adulto, costruendone di nuove insieme a lui, perché “la validità del progetto risiede non nella risposta a obiettivi predeterminati, ma nella costruzione di quadri concettuali e di assetti organizzativi provvisori, frutto dell'agire strategico congiunto dei bambini e degli adulti”.
Una riflessione importante, durante questo percorso, può essere quella sui tempi che noi diamo ai bambini per esplorare e padroneggiare certe situazioni progetto: occorre rendersi conto di quanto sia più articolato e complesso il percorso che i bambini fanno rispetto a quello che abbiamo in mente come adulti “padroni
e conoscitori della realtà”.
Questo loro percorso ha bisogno di tempi adeguati, diversi da bambino a bambino; la esplorazione degli oggetti attraverso la manipolazione, il confronto tra oggetti diversi, il mettere insieme oggetti per qualche motivo simili, la combinazione di oggetti e materiali verso forme nuove e creative: le informazioni che i bambini acquisiscono ed organizzano, attraverso i loro processi mentali, sono infinite e talvolta siamo troppo determinati ad avere un prodotto che ci dica “quanto” il bambino sa per riconoscere dignità e valore alle complesse strategie di costruzione dell'esperienza e delle conoscenze.
Un'ultima considerazione riguarda il bisogno, che consegue a questo tipo di concezione, di uscire dall'idea della valutazione come misurazione di competenze e di risultati per approdare all'idea della valutazione come strumento che ci dice, innanzitutto, se la situazione proposta è adeguata nei tempi, negli spazi, nel numero dei bambini coinvolti, nel ruolo tenuto dall'adulto; da ciò dipende anche la progressiva capacità di osservare non tanto e non solo il bambino, ma piuttosto la situazione nella quale siamo inclusi insieme a lui e, infine, l'attenzione ad includere le nostre notazioni sulle competenze possedute dal bambino nella descrizione della storia della sua esperienza, intesa come “processo in situazione”, in cui interessi, motivazioni, stili e strategie si intrecciano con le risorse umane e materiali circostanti per costruire l'evento educativo.


SENZA TITOLO...
ovvero “gioco per un dito che esplora il colo-re dentro al piatto”
Pillole, Bambini maggio 1999

Giacomo fa passare la farina attraverso un barattolo forato e la guarda cadere giù, poi mette la mano sotto al flusso della farina, e si volta sorridente: “Senti, fa il solletico!”. Prende un colino e comincia a scuotere la farina con una mano, lasciando sotto quell'altra, fino a quando non è tutta coperta: “Guarda dada, non c'è più!”. Vicino a Giacomo, Marta rimesta energicamente con un cucchiaio la farina dentro a una ciotola, con movimenti circolari che producono un suono strisciato e regolare. Sta molto attenta a non fare uscire la farina dalla ciotola, e ci riesce fino a quando, voltandosi verso Giacomo, fa cadere uno spruzzo di farina sul tavolo. Allora Marta riprende con maggiore energia il suo ritmo: il cucchiaio si muove sempre più velocemente, sparpagliando la farina sul tavolo, con evidente soddisfazione della bambina che sottolinea l'azione con la voce: “Via, via, viaaa!”.
“A loro piace molto giocare con i travasi – commenta l'insegnante – è un'attività che proponiamo spesso ai bambini di tre anni”. Travasi? Osservando i bambini non ho notato la minima traccia di questa operazione: ho visto bambini immersi nel piacere di percezioni tattili, visive, sonore, interessati a scoprire il legame tra il proprio gesto e il comportamento della farina, ma non ho visto alcuna attività di travaso, di cui, tra l'altro, non ho sentito la mancanza, vista la ricchezza dell'attività dei bambini. Mi colpisce però il fatto che l'edu-catrice usi questa definizione, perché mi sembra che in questo caso la parola travaso non serva a descrivere il gioco dei bambini che abbiamo appena osservato, ma addirittura ci allontani dalla possibilità di comprenderne il significato. È la stessa sensazione di perplessità che ho provato in un nido, nei confronti della domanda “Non hai voglia di dipingere oggi?” rivolta a un bambino di poco più di due anni, che nell'atelier di pittura si attardava a paciugare con il dito nel piattino del colore, invece che trasportarlo sul foglio. La consuetudine didattica ci porta a utilizzare definizioni standard per indicare le attività che proponiamo ai bambini, e forse ci spinge a dimenticare che sarà il modo in cui ciascuno di loro metterà in atto i propri desideri e le proprie competenze nella situazione di gioco proposta, a indicare il vero titolo della loro attività.
In questa logica “gioco per un dito che esplora il colore dentro al piatto” definisce un'attività che può sicuramente essere assimilata alla pittura, ma che ha motivazioni e caratteristiche particolari, che devono essere riconosciute e rispettate (e non poste in conflitto con l'attività prevista); così come “movimenti per far cadere la farina e sentirla con le mani e con le orecchie” delinea una situazione esplorativa che forse è propedeutica al travaso, ma che può anche semplicemente collegarsi a interessi tattili, sonori e gestuali auto-nomi ed ugualmente importanti. Non è solo una banale questione verbale: se i titoli orientano il nostro pensiero e le nostre aspettative, sarà inevitabile che condizionino anche l'allestimento dello spazio e dei materiali, e soprattutto il nostro atteggiamento nei confronti delle risposte infantili. E i titoli standard, sintetici e spesso radicali in pratiche didattiche un po' ingessate, ci portano a trovare nell'attività soprattutto ciò che è già previsto e sperimentato, trascurando gli apporti originali dei singoli bambini.
Perché non provare invece a rinunciare ai titoli, almeno in partenza, per arrivare soltanto in un secondo momento a definire l'attività dei bambini, sulla base di ciò che abbiamo osservato? In questa logica diventa anche più facile individuare gli elementi da variare per rilanciare il gioco, senza snaturarlo, ma rendendolo più interessante, perché in continuità e in allargamento con quanto i bambini stanno realmente facendo.
Effe


Contorni da rispettare
Pillole, ottobre 1999

Scontornare è una parola ancora assente in molti vocabolari della lingua italiana, ma molto familiare a chi lavora in campo grafico: indica l'azione di isolare una particolare figura dal contesto di provenienza, ritagliandola appunto lungo i contorni, per poterla ricollocare su altri sfondi, in altre posizioni, vicino ad altre figure.
Nella scuola materna e al nido questa pratica è spesso utilizzata per evidenziare e valorizzare qualche particolare, o creare composizioni collettive. In questi casi l'insegnante isola, tra i tanti segni e disegni dei bambini, quelli più interessanti e significativi (ovviamente rispetto ai propri canoni grafici) e li mette in evidenza, in un nuovo contesto grafico, di solito anch'esso ideato e realizzato da un adulto. È dunque importante ricordare che questo modo di "confezionare" le produzioni grafiche infantili, ormai molto abituale, è la risultante di due intenzionalità: quella del bambino, ma anche quella dell'adulto. E se è oggettivamente vero che i disegni così trattati vengono letti più facilmente e con maggiore piacere dai non addetti ai lavori (perché eliminando uno sfondo spesso disordinato con uno più pulito e curando il rapporto figura/sfondo anche rispetto al contrasto di colore si ottengono “oggetti culturali” decisamente più vicini all'estetica dominante), è anche vero che l'operazione non è del tutto esente da qualche rischio pedagogico.
L'abitudine al prodotto confezionato, ad esempio, può portare i genitori a sopravvalutare le effettive capacità dei loro bambini, attribuendo anche ai più piccoli intenzionalità rappresentativa e capacità di esecuzione ancora molto lontane. Mi è già capitato di rassicurare genitori che si sentivano incapaci, solo perché non riuscivano a ottenere a casa gli stessi disegni che vedevano al nido: ovviamente le prestazioni dei bambini erano le stesse, ma mancava la sostanziosa opera di confezionamento dell'adulto...
L'abitudine a ritrovare i propri disegni ritagliati e ricomposti, può inoltre diventare una sorta di educazione allo zapping che l'adulto inconsapevolmente propone ai bambini, come portavoce di una cultura che tende alla stessa frammentazione e alla velocità che magari viene avversata a parole.
Infine, anche questa tecnica, come tutte, rischia di prendere la mano a chi la utilizza: ritagliando un disegno si possono eliminare segni che si ritengono sbagliati o inutili, ricollocando le figure in un nuovo contesto si possono correggere errori di posizione, di scala, e a poco a poco si modifica non solo l'effetto percettivo, ma anche la qualità dell'elaborato grafico stesso. Conseguentemente, guardando il risultato finale diventa impossibile capire se siamo davanti a un prodotto infantile confezionato da
un adulto o a un prodotto adulto che utilizza un elaborato infantile.
E tra le due cose c'è una bella differenza, almeno dal punto di vista pedagogico: proprio parlando di contorni, Bateson ricordava a se stesso e alla figlia l'importanza di continuare a vedere la differenza tra una cosa e un'altra, e non scambiare la confusione con la tolleranza.
La riflessione sul tipo di contorni che vogliamo seguire e rispettare si allarga dunque dal disegno al modello di bambino adultizzato, "scontornato", levigato, decontestualizzato che rischiamo di creare, sovrapponendo i nostri criteri adulti a quelli dei bambini che dobbiamo cercare di ascoltare.
Effe

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