venerdì 23 gennaio 2015

Pensieri in libertà - novembre 2014. LE PAROLE CHE NON TI HO DETTO

Daniele Barca
Dirigente scolastico, Istituto Comprensivo di Cadeo e Pontenure (Pc)



Nella mia (breve) esperienza di Dirigente scolastico anche nella scuola dell’infanzia ho imparato una cosa: l’importanza delle parole. Praticamente tutte le criticità sorte dalla quotidianità delle mie scuole dell’infanzia sono nate attorno alle parole. 


Parole (non proprio limpide) riferite dai bimbi ai genitori, che riportano parole (distorte) delle maestre. Parole non dette (ma importanti, almeno per informare di un’influenza notturna), la mattina davanti a un armadietto. Parole di genitori che chiedono la verifica delle parole delle insegnanti con l’installazione di telecamere (viva la fiducia!). Parole delle maestre che chiedono colloqui riservati (ma pieni di parole) per risolvere le dinamiche di relazione nei team con la nuova arrivata di turno. Parole (irripetibili) pronunciate dai bambini nei confronti di altri bambini, che poi, a loro volta, le ripetono. Parole non dette dalle maestre oppure una parola detta di più, quando bastava solo un sorriso. Parole giuste, e dette al momento giusto, ma non ascoltate. O parole dal senso fuggito, ascoltate e amplificate. Pettegolezzi mattinieri nei bar tra genitori, che esulano dal rapporto educativo. 
Naturalmente non sto parlando delle tante parole che circolano in una sezione dell’infanzia, belle e mirate a toccare cuore e cervello… Quelle che i linguisti ritengono fondamentali per plasmare le idee, l’espressione, le connessioni mentali che si attivano nei bambini e nelle bambine. A quell’età, infatti, inconsapevolmente i bambini ne sviluppano a livello neuronale decine e decine, tutte fondamentali per il futuro degli apprendimenti, ma più in generale della loro vita.
Sto parlando di quelle non domate. Parole soprattutto degli adulti. Trovo che dovremmo riappropriarci delle parole che non diciamo. Come il titolo di un noto libro e film a corollario. Riappropriarci di quelle per non dirne altre che provano equivoco, che non sappiamo quale bersaglio andranno a colpire dopo essere state scoccate. Quelle che a noi dicono poco, ma che a un bimbo possono evocare un mondo e a un genitore ispirare un dubbio. Nel quotidiano non è facile. Ne spendiamo molte.
Se pensiamo, però, a loro come mattoncini su cui si costruisce l’identità linguistica, sessuale, culturale, l’identità tout court, allora ecco che questa qui in alto la toglieremmo, così quella lì in basso, così quella lì in mezzo e quell’altra sulla destra; e quell’altra ancora in basso a sinistra. Se potessimo rivedere i mattoncini di parole che, come educatori e portatori sani di linguaggio – insieme ai nonni, ai genitori, agli altri bimbi – ogni giorno utilizziamo, e se potessimo eliminare quelli delle parole che avremmo potuto evitare di pronunciare, ne uscirebbe un muro diroccato, poco stabile. Ma questo non si può fare. Dalle parole non si divorzia, non si torna indietro. E non c’è preside che possa stabilire, novello Salomone, con una spada e come richiedono i più, il detto, il non detto, il mal detto, il mai detto. Abbiamo solo due armi: il pensiero e l’esercizio. Il primo che ci insegna tutto sul “bersaglio”; il secondo che ci insegna a scoccare le parole.

Nessun commento:

Posta un commento